Dei coniugi (senza figli) in occasione della loro separazione concordavano, in via consensuale, un cospicuo assegno di mantenimento a favore della moglie con l’attribuzione alla medesima del diritto di godimento della casa coniugale (di proprietà esclusiva del marito) alle condizioni previste dall’art. 337 sexies c. 1 c.c. con la precisazione che il diritto di godimento costituiva “contributo al mantenimento della moglie”.
Successivamente il marito depositava ricorso per ottenere la cessazione degli effetti civili del matrimonio, senza altra statuizione, mentre la moglie, costituitasi, chiedeva l’aumento dell’assegno di mantenimento distinguendo a seconda dell’assegnazione o meno della casa coniugale.
Il Tribunale pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio, revocando l’assegnazione della casa familiare e respingendo la richiesta di attribuzione dell’assegno divorzile alla moglie.
Impugnata dalla moglie la sentenza, la Corte d’Appello annullava la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva revocato l’assegnazione della casa coniugale e disponeva a carico del marito un assegno divorzile, seppur ridotto rispetto agli accordi di separazione (riconoscendo solo la finalità assistenziale dell’assegno e non quella perequativa-compensativa).
Il marito ricorreva in cassazione contestando l’errata interpretazione dell’accordo assunto in occasione della separazione da parte della Corte territoriale che lo aveva ritenuto non soggetto alla cognizione del giudice del divorzio e per non avere i giudici valutato la spettanza o meno dell’assegnazione a favore della moglie, considerando che il marito aveva chiesto di escluderla, mentre la moglie ne aveva chiesto la conferma.
La Cassazione con la sentenza n. 20034/2024 conferma come, a fronte delle domande reciproche delle parti, la Corte d’Appello era chiamata a valutare la possibilità di “modificare o revocare la pattuizione contenuta negli accordi di separazione consensuale”.
A tal fine gli Ermellini ribadiscono che l’accordo raggiunto dai coniugi in sede di separazione può contenere varie pattuizioni: alcune di contenuto essenziale in quanto “collegato direttamente al rapporto matrimoniale” ed altre di contenuto eventuale o accessorio in quanto “
collegato in via soltanto estrinseca con i patti principali” cioè “negozi che non hanno causa nella separazione personale dei coniugi, risultando semplicemente “occasionati” dalla separazione medesima” e volti a regolare i rapporti giuridici patrimoniali ex art. 1321 c.c. (ad esempio la divisione dei beni in comune, la destinazione degli animali domestici, la disciplina del godimento della casa di vacanza, l'impegno a vendere un bene comune e estinguere il mutuo fondiario con i proventi ecc.). In tal caso gli accordi sono vincolanti tra le parti secondo le ordinarie regole civilistiche.
Ne consegue che, mentre gli accordi che regolano il contenuto necessario della separazione possono essere revocati e modificati ex art. 710 c.p.c. e possono essere superati dalla pronuncia di divorzio, “gli accordi semplicemente occasionati dalla procedura separativa sono assoggettati alla disciplina propria dei negozi giuridici e sono sottratti alla statuizione del giudice del divorzio che non può revocarli o modificarne il contenuto”.
La Suprema Corte precisa altresì che non sussiste un’automatica “distinzione tra pattuizione e tipiche o atipiche, poiché le parti possono prevedere modalità atipiche di regolamentazione dei loro rapporti a seguito della separazione che però attengono al contenuto essenziale delle condizioni di separazione in quanto destinata ad assolvere ai doveri di solidarietà coniugale per il tempo immediatamente successivo alla separazione”. Il giudice deve “verificare se la pattuizione in esame, pur contenendo prestazioni diverse da quelle tipiche, assolva le finalità proprie delle statuizioni necessarie conseguenti alla separazione oppure no”.
La Cassazione quindi, precisando come l’interprete sia “chiamato a indagare la comune intenzione delle parti accertando se si tratti di patti che hanno nella separazione una mera occasione e non la loro causa concreta, facendo uso dei canoni interpretativi forniti dal 1362 c.c. secondo i quali il primo momento da utilizzare senso letterale delle parole e delle espressioni adoperate” ha cassato la sentenza impugnata rinviando alla corte territoriale competente, in diversa composizione.
A cura di Avv. Federica Girardi