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Dichiarazione giudiziale di paternità e danno endo-familiare

2024-10-24 11:38

Federica Girardi

La Cassazione ha confermato due sentenze delle Corti territoriali che avevano avuto esiti opposti: l’una ha confermato il rigetto della domanda risarcitoria e

Nello stesso giorno sono state pubblicate due ordinanze della Corte di Cassazione: in entrambi i casi le domande introduttive attenevano alla pronuncia di dichiarazione giudiziale di paternità ex art. 269 c.c. di un minore non riconosciuto dal padre.

 

Nel primo caso, oltre alla richiesta di dichiarazione giudiziale di paternità del minore (nato dalla relazione tra l’attrice e il convenuto e non riconosciuto dal padre), alla domanda di condanno al parziale rimborso delle spese di mantenimento dalla nascita e al contributo al mantenimento dalla sentenza, veniva richiesto anche il risarcimento del danno non patrimoniale sofferto. Il convenuto si costituiva eccependo l’inammissibilità dell’azione e rifiutandosi di sottoporsi alla consulenza biogenetica. Il Tribunale accoglieva la domanda di accertamento della paternità, determinando il contributo al mantenimento, ma rigettava la domanda risarcitoria. Il “dichiarato” padre, dopo essersi visto respingere l’appello, presentava ricorso in Cassazione.


A parte l’esame di alcune censure procedurali, la fattispecie ha consentito alla Suprema Corte, nell’ordinanza n. 21979/2024, di confermare alcuni importanti principi.

 

Innanzitutto, i Giudici precisano che il consenso del figlio, che abbia compiuto quattordici anni e richiesto dall’art. 273 c.c. per promuovere o proseguire l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità, deve intendersi quale “requisito del diritto all’azione, integrativo della legittimazione ad agire del genitore” che può “sopravvenire in qualsiasi momento”, purché sussista al momento della decisione.


La Cassazione, poi, ha ribadito il proprio costante e consolidato orientamento secondo cui il test del DNA può fornire elementi per escludere, ma anche per affermare il rapporto biologico di paternità, essendo peraltro sufficienti anche altre risultanze processuali. Ciò posto ed escludendo che la consulenza tecnica ematologica possa in ogni caso essere considerata esplorativa, “il rifiuto del preteso padre di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile dal giudice ex articolo 116 secondo comma c.p.c. di così elevato valore indiziario da consentire esso solo di ritenere fondata la domanda”.

 

Gli Ermellini confermano come la Corte territoriale abbia considerato il rifiuto a sottoporsi al test del DNA nell’ambito di un più ampio quadro probatorio relativo alle vicende familiari e ai rapporti intercorsi tra il minore e il presunto padre e abbia ampiamente motivato il proprio convincimento con valutazione delle risultanze probatorie non sindacabile in sede di legittimità.
 

Nel secondo caso, instaurato sempre per la dichiarazione giudiziale di paternità, Tribunale aveva pronunciato la paternità, ponendo a carico del convenuto sia la refusione del mantenimento dalla nascita sia un assegno per il mantenimento, ma soprattutto la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale da c.d. illecito endo-familiarein ragione del disinteresse mostrato nei confronti della prole”. La pronuncia era stata confermata dalla Corte territoriale competente.

 

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21964/2024, nell’esaminare il ricorso avverso tale pronuncia, ribadisce il principio secondo cui “in tema di filiazione, l'obbligo del genitore di concorrere all'educazione e al mantenimento dei figli ai sensi degli articoli 147 e 148 c.c. sorge al momento della procreazione anche qualora questa sia stata accertata successivamente con la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità così determinandosi un automatismo tra la responsabilità genitoriale e procreazione che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endo-familiare nell'ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l'assolvimento degli obblighi conseguenti allo status dei genitori”.

 

Ai fini della condanna al risarcimento del danno subito dal figlio a carico del genitore “occorre che quest'ultimo non abbia assolto ai propri doveri consapevolmente e intenzionalmente o anche solo ignorando per colpa l'esistenza del rapporto di filiazione” e la prova di ciò può desumersi da presunzioni gravi, precise e concordanti.


Sul punto la Corte territoriale aveva accertato, dandone ampia motivazione, i presupposti per la fondatezza della domanda risarcitoria: nel caso di specie, infatti, il ricorrente era stato informato della gravidanza e, frequentando lo stesso ambiente professionale della madre, aveva avuto conoscenza della nascita.


A cura di Avv. Federica Girardi