La Corte Costituzionale riscrive il Jobs Act

di Emilio Augusto Galbiati

Alcune considerazioni sul portato e sugli effetti dell'intervento del giudice delle leggi

La sentenza

Sentenza 194/2018

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: LATTANZI - Redattore: SCIARRA
Udienza Pubblica del 25/09/2018; Decisione del 26/09/2018
Deposito del 08/11/2018; Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:
art. 1, c. 7°, lett. c), della legge 10/12/2014, n. 183;
artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 04/03/2015, n. 23.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE


1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183) – sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96 – limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio,»;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3, commi 2 e 3, e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (Convenzione sulla cessazione della relazione di lavoro ad iniziativa del datore di lavoro), adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il 22 giugno 1982, e all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 –, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 30 CDFUE, dal Tribunale ordinario di Roma, terza sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 settembre 2018.

La Corte Costituzionale riscrive il Jobs Act di Emilio Augusto Galbiati

Con la pronunzia n. 194, resa il 26.09.2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità di una delle norme cardine del cosiddetto Jobs Act, ovvero l'art. 3 comma 1 del D.Lgs. 23 / 2018.


La Corte ha accolto la cosiddetta questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Roma con una ordinanza del 26.07.2017.

Il giudice di merito era infatti chiamato ad applicare la disciplina del Jobs Act e, in particolare il regime sanzionatorio previsto dalla medesima, ad una fattispecie di licenziamento di una lavoratrice, per difetto di giustificato motivo oggettivo, a pochi mesi dalla assunzione, avvenuta nel maggio 2015.

Tale regime sanzionatorio è applicabile infatti ai lavoratori assunti a tempo indeterminato, da aziende che impiegano più di quindici dipendenti, dopo il 07.03.2015: per i lavoratori assunti prima di tale data vigeva e vige il "più favorevole" regime dell'art. 18 L. 300 / 1970, se pur modificato nella versione cosiddetta "Fornero" con L. 92 / 2012.

Il Tribunale di Roma ha ritenuto di dover investire la Corte Costituzionale dell'esame di legittimità della norma, prospettando la possibile violazione, sotto molteplici ed articolati profili,

dell'art. 3 Cost. (ovvero del principio di uguaglianza e del correlato principio di ragionevolezza);

degli artt. 4, primo comma e 35, primo comma Cost. (ovvero del diritto al lavoro e alla sua tutela in tutte le sue forme ed applicazioni);

degli artt. 76 e 117, primo comma Cost. (ovvero delle convenzioni internazionali e dell'ordinamento comunitario).


Il testo dell'art. 3 comma 1 del D.Lgs. 23 / 2018 all’esame della Corte, come recentemente modificato dal cosiddetto Decreto Dignità (D.L. 87 / 2018, convertito in L. 96 / 2018), recitava:

1. Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a [quattro] sei e non superiore a [ventiquattro] trentasei mensilita'.


La Corte Costituzionale, con una motivazione dotta e dettagliata, ha reso una pronunzia di "illegittimità parziale testuale": si tratta di una tipologia di pronuncia che conduce all’eliminazione della norma non conforme alla Costituzione attraverso la riduzione del testo della disposizione, dichiarato costituzionalmente illegittimo “limitatamente alle parole” riportate nel dispositivo della sentenza.

In questo caso, l'art. 3 comma 1 del D.Lgs. 23 / 2018 è dichiarato illegittimo limitatamente alle parole "di importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio".



Pertanto, il regime sanzionatorio per i licenziamenti illegittimi dei lavoratori assunti a tempo indeterminato da datori di lavoro con più di quindici dipendenti (salvi i casi di inesistenza e nullità), sempre ai sensi dell'art. 3 comma 1 del D.Lgs. 23 / 2018, è il seguente:



1. Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata a contribuzione previdenziale, in misura comunque non inferiore a [quattro] sei e non superiore a [ventiquattro] trentasei mensilita'.

Alcune considerazioni sul portato e sugli effetti dell'intervento del giudice delle leggi.


La riformulazione della disciplina dei licenziamenti, non inesistenti (orali) o nulli (discriminatori), ma comunque invalidi per difetto di giusta causa o giustificato motivo, suggerisce una serie di osservazioni

sia sul piano tecnico-giuridico (A),

sia sul piano pratico-economico (B).

Il piano tecnico-giuridico


La sentenza n. 194 resa il 26.09.2018 si caratterizza per una articolazione e una profondità motivazionale, pienamente rispondente alla delicatezza e alla rilevanza della materia.

La Corte ha statuito con assoluta consapevolezza del nucleo giuridico della norma e del cuore politico del problema.

Con il Jobs Act il legislatore aveva inteso, tra l'altro, introdurre misure a contrasto della disoccupazione: in particolare, con il regime sanzionatorio dell'art. 3 comma 1 del D.Lgs. 23 / 2018, il legislatore ha proposto una misura diretta a contrastare l'incertezza e l'onerosità dei licenziamenti, motivazioni indicate e reputate come causa della mancata assunzione di nuovi dipendenti.

Sul punto viene in rilievo l’art. 1, comma 7, lettera c), della L. 183 / 2014, ovvero la legge che ha attribuito la delega al governo ad assumere provvedimenti allo "scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione".

Con questo presupposto ben presente, la Corte ha provveduto ad esaminare gli 8 profili di incostituzionalità sollevati dal Tribunale di Roma.

Uno di tali profili è stato dichiarato inammissibile, tre sono stati rigettati in quanto infondati.

I quattro profili accolti meritano una breve illustrazione.

In via preliminare, tuttavia, è opportuno sottolineare il principio cardine, in senso giuridico, del percorso motivazionale della sentenza: al lavoratore licenziato illegittimamente è dovuta una tutela e tale tutela, qualificata come "indennità", ha natura di rimedio risarcitorio, a fronte di un atto illecito del datore di lavoro (v. art. 1 L. 604 / 1966).

Ciò posto, la tutela adottata dal Jobs Act si connota per essere, nell'ambito di limiti predefiniti verso il basso e verso l'alto e con il fine di prevedere un indennizzo economico "certo",

non graduabile in relazione a parametri diversi rispetto alla anzianità di servizio;

non incrementabile con riferimento alle singole fattispecie.

Il primo (e principale) profilo di illegittimità è identificato nella violazione del principio di uguaglianza, sancito dall'art. 3 Cost.: con l'ancoraggio del risarcimento ad un unico parametro (anzianità di servizio) e in misura rigida, si verifica infatti l'ingiustificata omologazione di situazioni diverse.

La tutela risarcitoria non può prescindere dalla considerazione di una molteplicità di fattori come, oltre alla anzianità di servizio, anche il numero dei dipendenti, le dimensioni dell'impresa, il comportamento e le condizioni delle parti: la personalizzazione del danno attraverso tali parametri può essere invece garantita dalla discrezionalità al giudice.

Analogamente, il secondo profilo di illegittimità rispetto all'3 Cost., concerne la violazione del principio di uguaglianza, rectius del principio di ragionevolezza che ne costituisce indispensabile corollario, per la contestuale inidoneità della indennità prevista a costituire sia adeguato ristoro del pregiudizio del lavoratore, sia adeguata dissuasione del datore di lavoro a provvedere all'illecito licenziamento.

Le medesime considerazioni conducono la Corte Costituzionale a ritenere violati anche i principi del "diritto al lavoro" ex art. 4 Cost. e delle "tutele del lavoro in ogni sua forma" ex art. 35 Cost.

Da ultimo, il quarto profilo di illegittimità concerne gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost. in relazione all'art 24 della Carta Sociale Europea.

La norma prevede l'impegno degli Stati firmatari a riconoscere, ai lavoratori licenziati senza un valido motivo, "un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione": per le ragioni già illustrate, la modalità rigida e forfettaria adottata con il Jobs Act non risponde a tali requisiti.

In definitiva, dalla pronunzia della Corte Costituzionale sembra potersi ricavare, sul piano tecnico-giuridico, una considerazione di sintesi.

La Grundnorm, ovvero il complesso dei principi fondamentali di sistema, impone che qualsiasi disciplina legislativa in materia di licenziamenti debba prevedere, per il caso di illegittimità, una forma di tutela del lavoratore che, per dirsi congrua è adeguata, deve essere in qualche misura personalizzata con riferimento a svariati parametri di contesto.


B) Il piano pratico-economico


Le conseguenze pratiche e i riflessi economici della recente pronunzia della Corte Costituzionale possono per il momento solo prefigurarsi.

In prima battuta, deve evidenziarsi come, per la tipologia (accoglimento parziale testuale) della sentenza resa dalla Corte Costituzionale, sin da subito e anche nei procedimenti giudiziari in corso, può trovare applicazione una disciplina sanzionatoria, anche se diversa da quella originariamente introdotta con il Jobs Act.

Tale disciplina e, nello specifico, la misura del risarcimento economico a favore del lavoratore illegittimamente licenziato, si riassume nelle ultime righe dell'art. 3 comma 1 del D.Lgs. 23 / 2018, come modificato dal Decreto Dignità e come "riscritto" dalla Corte Costituzionale:

"pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità".

Ciò detto meritano di svolgersi due osservazioni.



i) Anzitutto, "costo" di un licenziamento, torna ad essere molto variabile e, per tale motivo, potrebbero tornare ad avere una ulteriore incidenza i costi di trattativa e di contenzioso.

Una delle (se non la principale) finalità del Jobs Act è stata totalmente eclissata.

Al riguardo si pensi poi anche agli effetti indiretti della pronunzia.

In particolare, si realizza il sostanziale depotenziamento dell'istituto dell'offerta al lavoratore, introdotto con l'art. 6 D.Lgs. 23 / 2018 (tutt'ora vigente e non influenzato dalla sentenza del giudice delle leggi).

Quest'ultima norma prevede la facoltà per il datore di lavoro di offrire al lavoratore in via conciliativa una somma pari a "una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità".

Tale somma inoltre è esente da qualsiasi contribuzione fiscale e contributiva.

Nell'ambito della formulazione originaria del Jobs Act, una simile offerta (corrispondente al 50% delle somme ipoteticamente ottenibili e oltretutto esentasse, con un mimino di 2 mensilità, elevato a 3 con il Decreto Dignità) era considerata come ragionevolmente accettabile: nella prassi, anche in considerazione della attuale ridotta anzianità di servizio dei lavoratori interessati dal Jobs Act (assunti dopo il 07.03.2015), ha trovato ampia attuazione, consentendo ai datori di lavoro di controllare, se non di programmare il costo dei licenziamenti (e di alleggerire almeno in parte il carico di contenzioso avanti i Tribunali).

Nel mutato contesto, ovvero rispetto ai termini risarcitori che, senza preordinati automatismi, potrebbero variare da 6 a 36 mensilità, la definizione in via conciliativa con 1 mensilità per ogni anno di servizio (minimo 3) potrebbe trovare scarse possibilità di successo.



ii) Il combinato disposto delle modifiche introdotte dal Decreto Dignità e della pronunzia di illegittimità della Corte Costituzionale ha involontariamente prodotto un effetto curioso, al limite del paradossale, ma certamente rilevante nell'ambito delle politiche aziendali.

Difatti, il raffronto tra il "nuovo" Jobs Act e il regime sanzionatorio che interessa i licenziamenti dei lavoratori assunti prima del 07.03.2015, disciplinato dall'art. 18 L. 300 / 1970, se pur modificato nella versione cosiddetta "Fornero" con L. 92 / 2012, porta, in situazioni analoghe, a questi risultati:

Lavoratori Fornero: da 12 a 24 mensilità

Lavoratori Jobs Act: da 6 a 36 mensilità.

L'art. 9 D.Lgs. 23 / 2018, disciplina il regime sanzionatorio in caso di illegittimo licenziamento da parte di datori di lavoro che non raggiungono i requisiti dimensionali dell'art. 18 L. 300 / 1970 (ovvero che impiegano fino a 15 dipendenti).

La norma non è stata interessata dalla pronunzia di illegittimità, ma ne subisce indirettamente gli effetti.

Difatti, il predetto articolo 9 prevede che l'ammontare dell'indennità dovuta è pari all'importo dimezzato dell'art. 3, comma 1 (ovvero tra 3 e 36 mensilità) fino a un limite massimo di 6 mensilità.

Posto che il regime applicabile ai lavoratori assunti prima del 07.03.2015, ai sensi dell'art. 8 L. 604 / 1966, sanciva un'indennità in misura variabile da 2,5 a 6 mensilità, con la pronunzia della Corte Costituzionale, (sempre in concorso con il Decreto Dignità) il risarcimento dei "nuovi" assunti dovrà ora calcolarsi tra 3 (ovvero la metà di 6) e 6 (rispetto al massimo di 36) mensilità.

In altri termini, per i datori di lavoro (comprese le PMI), oltre a non essere stata superata l'incertezza dei costi del licenziamento, potrebbe a breve prefigurarsi (fatta salva ogni considerazione sull'estensione della cosiddetta “tutela reale” per reintegrazione) una maggiore onerosità di tali costi per il licenziamento giudicato illegittimo dei neo assunti in regime Jobs Act, rispetto ai lavoratori per i quali si applica il vecchio art. 18 L. 300 / 1970 (con riguardo al costo massimo) o addirittura anche il vecchio art. 8 L. 604 / 1966 (con riguardo al costo minimo).


Intervento di Emilio Galbiati mercoledì 14 novembre 2018