Risarcimento per danno da privazione del rapporto parentale e ascolto del minore

Nell’ambito di un annoso e articolato iter giudiziale di separazione e, poi, di divorzio nel corso del quale la madre aveva continuamente riproposto la domanda di affidamento esclusivo del minore, il padre aveva evidenziato la “messa in atto di un’insana strategia volta da alienargli il figlio” da parte della moglie.
I giudici, nel corso dei numerosi procedimenti, avevano messo in guardia la madre dalle proprie condotte, evidenziando come non sussistessero “motivi … omissis … per comprimere o addirittura negare, di fatto, il diritto del minore alla piena genitorialità”. Nonostante tali sollecitazioni la madre aveva continuato a reiterare giudizialmente la domanda di affidamento in via esclusiva del figlio.
I Servizi territoriali di Neuropsichiatria Infantile, investiti del caso, avevano evidenziato una disfunzione della relazione genitore-bambino con particolare riferimento alla diade madre-figlio, aventi difficoltà a separarsi l’uno dall’altra con l’instaurazione di una relazione di tipo simbiotico. Tali conclusioni avevano indotto i giudici ad ammonire ex art. 709-ter c.p.c. la madre a “mutare la propria condotta e ad adottare ogni più idoneo rimedio al fine di consentire il recupero di un sereno ed equilibrato rapporto tra la stessa e il figlio e tra il padre e il figlio”.
Anche in sede di divorzio la domanda formulata dalla madre di affidamento in via esclusiva del minore veniva respinta con la motivazione che “non farebbe che consolidare ancora di più il rapporto madre-figlio a scapito di quello con il padre, che avrebbe sempre più difficolta a riappropriarsi del proprio ruolo di figura di riferimento maschile e genitoriale” essendo “doveroso intervenire al fine di impedire che il processo di alienazione parentale già in atto divenga irreversibile”.
I Servizi di Neuropsichiatria Infantile, nuovamente coinvolti nell’ambito del procedimento instaurato avanti il Tribunale per i Minori per ottenere la decadenza della responsabilità genitoriale, concludevano che “preso atto della non acquisita consapevolezza della madre del suo ruolo di genitore alienante , si ritiene che l’eventuale soluzione all’articolata situazione in oggetto non sia più negli interventi clinici specialistici, ma nelle determinazione che il Tribunale per i Minori vorrà eventualmente adottare al fine di interrompere una conduzione oramai inveterata e cristallizzata”.
A margine di tale lungo iter giudiziale, il padre adiva il Tribunale competente per ottenere la condanna della moglie al ristoro del danno c.d. endo-familiare, consistente nell’insorgenza della sindrome da alienazione parentale in capo al figlio.
Il giudice di merito, ricostruito il quadro probatorio emerso nei vari procedimenti che avevano visto coinvolti i coniugi-genitori, chiariva come, al fine di accogliere la domanda risarcitoria del padre, fosse necessario verificare la sussistenza della prova che la madre avesse “agito in maniera tale da impedire o ostacolare l’esercizio del ruolo paterno”.
Accertato come la madre “abbia soltanto formalmente collaborato, mentre ha concretamente frapposto ostacoli innumerevoli sia agli operatori che al padre rispetto al recupero della sua funzione genitoriale” e considerato il contegno processuale della medesima che ha impegnato il padre in numerosi procedimenti giudiziali aventi tutti l’obiettivo di ottenere l’affidamento esclusivo, il Tribunale ha ricondotto nell’ambito degli illeciti endo-familiari la condotta abituale della madre tesa ad esautorare il padre e a ingenerare nel minore il rifiuto del genitore, con ciò determinando in capo al figlio la privazione del rapporto genitoriale.
In tale fattispecie soggetto passivo non è solo il minore (vittima principale) ma anche il genitore escluso e il pregiudizio provocatogli è suscettibile di ristoro anche non patrimoniale ex art. 2059 c.c. liquidabile in via equitativa. Per procedere alla liquidazione del danno endo-familiare sono stati adottati i parametri elaborati per la perdita del rapporto parentale (Tabelle di Milano) e considerati, nel caso all’esame, i “margini di emendabilità” della perdita del rapporto parentale in prospettiva futura, il giudicante, di fronte alla forbice liquidatoria, ha considerato il parametro minimo ridotto nella misura di 1/3. Infine, il comportamento tenuto dal padre (eccessivamente remissivo nei confronti delle condotte materne, è stato valutato ex art. 1227 c.c. quale contributo colposo del padre e ha determinato un’ulteriore riduzione del 1/3, con una condanna della madre al risarcimento determinato in € 34.317,15 oltre interessi dalla domanda.
La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di condanna, affermando che l’audizione del minore, richiesta dalla madre, “era del tutto superflua in questa sede, trattandosi di un procedimento in tema di responsabilità aquiliana”.
La madre ha impugnato la pronuncia lamentando la nullità della sentenza di secondo grado in quanto affetta da error in procedendo per omesso ascolto del minore sancito dalle norme internazionali e interne.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34560/2023, ha rigettato il ricorso e affermato come l’ascolto costituisce il riconoscimento del diritto fondamentale del minore a potersi esprimere nei procedimenti che lo riguardano (nei quali, cioè, il minore rivesta la qualità di parte in senso sostanziale e in quanto il provvedimento giudiziale incide sui suoi interessi).
Sulla scorta di tale affermazione la Suprema Corte ha potuto concludere che nell’iter argomentativo della Corte d’Appello non vi fosse nulla di censurabile in quanto, da un lato, la responsabilità della ricorrente era stata compiutamente accertata e l’audizione del minore doveva quindi ritenersi superflua e, dall’altro, vertendosi in un giudizio in tema di responsabilità aquiliana tra i genitori, il procedimento risarcitorio all’esame dev’essere escluso dai “procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che riguardano il minore”.

A cura di Avv. Federica Girardi